Questo è un anno importante per numerosi avvvenimenti di rilievo
riferiti all'intero Paese e alla Università in particolare.
Dunque penso sia opportuno anziché enunciare molti numeri, utilizzarne
pochi per affrontare tematiche di significativo spessore, rimettendo la
tradizionale e ben più lunga relazione, prevista dallo Statuto di
Ateneo, allo scritto, destinato alle componenti universitarie, alle istituzioni
ed a chiunque vi abbia interesse. Chiedo scusa a chi di ciò potrebbe
risentirsi.
Fornirò dunque poche cifre, forse agevolato in ciò dal fatto
che la situazione dell'Università di Bologna, puntualmente riportata
anno dopo anno, è complessivamente ben conosciuta.
Gli studenti saranno centomila.
Questo è e credo sarà il punto più alto cui, nella sua
storia, l'Università di Bologna è arrivata e arriverà,
per poi decrescere a partire dall'anno prossimo.
I docenti di prima e seconda fascia sono 1800 con un lieve incremento
rispetto all'anno passato.
I ricercatori sono oltre 1000, con un incremento rispetto all'anno passato di
ben 126 (tenendo conto dei posti messi a concorso).
Il personale tecnico amministrativo ammonta a 2300 unità, di cui 147
in corso di assunzione.
Il nostro bilancio, faccio riferimento a quello preventivo per il 1997,
prevede entrate per oltre 805 miliardi, di cui 130 circa per partite di giro,
cui vanno aggiunti 51 miliardi, corrispondenti alle entrate dei Dipartimenti,
e spese per 820 circa con un disavanzo programmato di circa 13 miliardi.
Anche nel '97 avremo una notevole massa di denaro impegnato, ma non
speso per i lunghi procedimenti disciplinati dalle regole di contabilità
pubblica che siamo tenuti a rispettare e che intendiamo rispettare.
Ma voglio dire subito che ove si conosca la disciplina delle procedure di
spesa dell'Università, l'esistenza di queste forti somme a disposizione
non deve scandalizzare. Essa è temporanea e destinata ad essere
assorbita nel corso di questo e dei due prossimi esercizi.
È anche il frutto dell'autonomia finanziaria che ci è stata
data e che richiede un'opera di metabolizzazione destinata a durare per
più anni.
Attraverso l'autonomia finanziaria abbiamo conseguito maggiori mezzi,
pur senza gravare sullo Stato; facendo di più e meglio di quanto non
si potesse fare in passato.
L'Università di Bologna ha dunque le risorse sufficienti per programmare
il proprio futuro, senza chiedere interventi straordinari, salvo che per i
campus decentruti, purché le contribuzioni statali rimangano inalterate
e aggiornate al tasso di inflazione.
L'argomentò tocca in primo luogo gli interventi edilizi. Per poterli
effettuare in modo significativo abbiamo dovuto accumulare ed i tempi sono
diventati lunghi. Il tempo gioca anzi un ruolo perverso, perché le
situazioni cambiano o per eventi esterni o per il mutare delle opinioni dei
docenti e questo dà l'impressione (talvolta fondata) di incertezze e
ripensamenti.
Abbiamo tuttavia conseguito molti risultati e altri ne avremo.
Tra i primi San Giovanni in Monte restaurato, il palazzo di Via Barberia
acquisito; i nuovi edifici per Giurisprudenza, il completamento di Veterinaria;
tra i secondi il completamento di Giurisprudenza e di Ingegneria nel
Lazzaretto, gli investimenti previsti per nuovi insediamenti di Agraria e per
il Polo scientifico; la Manifattura Tabacchi, di concerto con il Comune che
ringrazio in particolare per la collaborazione.
Ma l'Università non vive soltanto di spazi; essa necessita di
personale.
Soprattutto, oggi, di personale tecnico, poiché non ci possono essere
laboratori o biblioteche o apparecchiature senza uomini capaci di farli
funzionare e di collaborare con i docenti.
Nel bilancio preventivo '97 questa esigenza primaria è stata ben
considerata, anche se voglio ricordare quanto sia difficile conservare
un'equilibrio, che non è soltanto equilibrio interno al bilancio ma
equilibrio rispetto al Ministero. II Ministero, infatti, non accetta, e
giustamente ritengo, che possano essere previste spese fisse in misura
superiore al contributo consolidato alla data del 31 dicembre 1993.
Di questo non c'è da scandalizzarsi.
Ogni autonomia, infatti, subisce limitazioni, ed è quindi giusto che
anche l'Università incontri vincoli nella utilizzazione dei fondi
ricevuti dallo Stato. Ma se, utilizzando la ragione, dobbiamo riconoscere i
valori dell'indirizzo e coordinamento ministeriale, mi domando, utilizzando
la medesima ragione, quali siano i valori che inducono a conservare un
sistema assurdo di governo delle assunzioni attraverso le liste di collocamento.
E quale sia la ratio di procedure inutilmente complesse in nome di un presunto
rispetto del principio di eguaglianza o del principio di trasparenza.
L'intero sistema delle assunzioni dei dipendenti universitari, nel quale si
è aperta ora, in base al nuovo contratto di lavoro una possibilità
di assunzioni temporanee di cui dovremo fare largo uso, deve essere cambiato.
Così come gli interventi spesso incomprensibili e ispirati ad una
visione parziale della realtà, cui ci ha abituato la Ragioneria
Provinciale dello Stato, la cui azione sembra ispirata principalmente
all'esigenza di non correre alcun rischio, attraverso l'interpretazione
comunque più restrittiva possibile delle norme e, dunque, operando di
fatto in modo negativo rispetto alle istituzioni.
Recentemente il Ministero ha dichiarato che non intende dare alle
Università indicazioni per la soluzione di problemi specifici.
Trovo questo sia giusto.
Ma allora le procedure di decentramento devono essere portate al loro
compimento. Nessuna istituzione può pretendere di sfuggire a controlli
- i revisori, la Corte dei Conti - o di sottoporsi alle esigenze di
coordinamento, ma l'Università non può accettare, ora
meno che mai, tentativi di centralismo, di cui un esempio è
riscontrabile nel disegno legge 1034 con il quale si vorrebbero definire
dal centro tasse e contributi uniformi, riducendo lo spazio dell'autonomia
ed impedendo di fatto di fornire agli studenti che lo chiedono maggiori
servizi in cambio di maggiori contributi.
In realtà proprio gli studenti con i loro contributi hanno dato un senso
alla complessiva autonomia universitaria, consentendoci di esercitare la
nostra autonomia finanziaria: per un ente erogatore di servizi ciò
significa poter interpretare il senso della propria missione ed attuarla.
Come emerge da quanto ho detto finora, dunque, il problema amministrativo
rimane tuttora il problema dominante; poiché è inutile accelerare
determinate fasi; è inutile assicurare un più puntuale potere
decisionale, se poi il passo complessivo è segnato dai ritardi
dell'esecuzione, che è quella più immediatamente apprezzabile
dagli interessati e dai terzi in genere.
Per Bologna un problema di grande rilevanza è quello delle dimensioni
dell'Ateneo.
Ritengo l'esperienza bolognese emblematica.
In controtendenza rispetto ad altri Atenei il numero degli studenti non
subisce diminuzioni. In una Regione con 4 Università, di antica e
consolidata fama, ed in presenza di nuovi Atenei in Italia, aumentano
soprattutto - sono oltre il 41% - gli studenti di altre Regioni.
Il fatto che il nostro Ateneo non abbia subito quelle variazioni in meno
che sembrano caratterizzare la generalità degli Atenei, non va
collegato ad una nostra incapacità di previsione, ma
alle caratteristichhe intrinseche dell'insediamento universitario bolognese,
con i suoi campus decentrati, e ai servizi che esso offre agli studenti;
servizi che, non bisogna dimenticare, vanno giudicati in termini
comparativi.
Ma l'aspetto fondamentale è che il numero degli studenti aumenta solo
nei campus decentrati, specie nella Romagna. Questa, ad onta delle
affermazioni dei disinformati, così numerosi anche all'interno
dell'Ateneo, è una risposta seria e consapevole, anzi l'unica possibile,
credo, in questa città ed in questa Regione per ridurre le dimensioni
di questo grande Ateneo.
Gli studenti che studiano nei poli decentrati sono ormai numerosissimi.
Sono oltre il 20% del totale; e questo è avvenuto in soli 6 anni.
Per realizzare questo intervento lo Stato ha speso una cifra pari ad una
piccola frazione degli investimenti destinati a Roma III e ad un'infinitesima
frazione di quelli destinati a Roma II. Questa dovrebbe essere una buona
ragione per riconoscere gli sforzi degli Enti locali e per dare più
fondi ai nostri campus decentrati.
Credo che questa - dell'Ateneo multicampus - sia una risposta forte di cui
il Ministro vorrà tenere conto, riservando ai poli dell'Ateneo di
Bologna un trattamento analogo, anche se per forzato realismo non lo
pretendiamo identico, a quello che verrà riservato a Napoli, a Roma.
A questo punto diviene quasi obbligatorio esprimere alcune valutazioni
sul numero chiuso.
A mio parere il Ministro ha saggiamente sottoposto a nuova valutazione
le iniziative, pur concettualmente giuste, ma per molti aspetti fuori tempo,
circa la sua introduzione generalizzata.
L'acme dei problemi derivante dalla mancata regolamentazione delle iscrizioni
è stato raggiunto qualche anno fa; gli interventi operati allora e
tuttora vigenti erano ispirati a ragioni oggettive: nazionali (settori con
eccesso di laureati), sovranazionali (regole dell'unione europea),
organizzative.
Ma il numero chiuso non è un problema del nostro futuro; è il
problema del nostro passato. È stato introdotto per ragioni impellenti
o, talora, perché si è inteso caricare qualche nuovo corso di
una connotazione di particolare qualità. Non ne sono stati toccati,
tuttavia, i grandi numeri e le grandi Facoltà, come Lettere, Legge,
Ingegneria, Economia che presentano caratteristiche omogenee sul piano
nazionale.
Il Ministro dunque opportunamente vuole riconsiderare il tutto, anche se
non si possono consegnare al caos i nuovi corsi nati, per ragioni oggettive,
a numero chiuso.
Gli studenti debbono accettare una limitazione nelle iscrizioni a Facoltà
e Corsi nuovi, attendendo che le strutture e i Corpi dei docenti si
solidifichino, poiché non si può pensare ad un corso
di biotecnologie, di odontoiatria o di interpreti aperto a tutti.
L'uguaglianza verso il basso non è l'uguaglianza alla quale ci richiama
la Costituzione.
Nello stesso tempo non ogni iniziativa può essere estesa a tutto il
Paese, poiché esso non ha bisogno di un numero eccessivo di supertecnici
e spesso i giovani sono spinti solo dalla moda del momento. Voglio ricordare
che l'Università, pur immersa nella società, deve lottare anche
contro il sovraddattamento, vale a dire, l'adeguarsi ai mercati che si
modificano, ai bisogni economici mutevoli, all'immediato effimero.
Poiché ogni adattamento all'immediato, se eccessivo, non è un
segno di vitalità, ma un segno di perdita di sostanza, di senescenza o
addirittura di morte per la perdita delle radici.
Probabilmente si paga anche la qualità scarsa della preparazione data
dalla Scuola Superiore; certamente si paga l'indiscriminata apertura degli
Atenei, a partire dal 1969-70, e la mancanza di idonei mezzi di orientamento.
Quali le alternative?
Un'alternativa possibile è la diffusione dei test indicativi da
effettuarsi prima delle iscrizioni. Sono strumenti di indirizzo che
garantiscono anche ai giovani maggiore consapevolezza; sono strumenti di
riqualificazione degli studi e di graduale programmazione, che debbono
estendersi rispetto alle poche Facoltà che ora lo fanno.
Altrimenti dovremo riconoscere che per l'Università vale la regola che
l'offerta si deve adeguare sistematicamente alla domanda. Questo non è
possibile! Non si tratta di vendere prodotti industriali; si tratta di
assicurare l'esistenza e il buon funzionamento di un complesso sistema
universitario.
L'orientamento assume allora un ruolo centrale ed è anche uno strumento
di collaborazione con cui le Università, impegnandosi a fondo,
possono far fronte alla decadenza delle Scuole Superiori.
Una variante opportuna può essere poi quella dell'indirizzo, del vaglio
delle capacità, delle maggiori opportunità offerte attraverso
l'adozione di strumenti di recupero delle lacune culturali da offrire prima
dell'inizio dei corsi. È questa un'operazione possibile, ma lunga e
difficile. Più agevole se ad essa se ne abbina un'altra: quella di
ridurre il periodo di permanenza nell'Università, puntando ad un
post-laurea più incisivo.
Voglio essere più preciso: il post-laurea non è un rimedio che
ci induce a puntare su pochi giovani che potranno arrivarci a danno di molti.
Il post-laurea non è un rimedio alla licealizzazione delle
Università, ma è il rilancio verso preparazioni più
specialistiche.
In questo contesto credo che la durata di studi nelle Facoltà dovrebbe
essere ridotta, non aumentata, come è recentemente avvenuto.
Sullo sfondo di queste considerazioni sta comunque una maggiore attenzione
agli studenti: per accompagnarli, a partire da un momento anteriore alle
iscrizioni all'Università, facendoli diventare precocemente studenti
universitari in pectore; per ridurre la loro permanenza negli Atenei; per
guidarli poi alla loro professione o alla ricerca.
Non possiamo dire che gli studenti sono troppi.
Sono troppi perché rimangono troppo tempo nell'Università e
perché il 50% dei nostri laureati per raggiungere il titolo impiega
un tempo pari a una volta e mezzo la durata ufficiale dei corsi.
A questo riguardo sottolineo l'esigenza che i criteri di valutazione, pur nel
riconoscimento dell'assoluta specificità delle discipline, vengano
uniformati.
Vi sono corsi di laurea in cui il 50% degli studenti si laurea con 110 e lode;
ve ne sono altri in cui il risultato è raggiunto dall'8% degli studenti.
Ciò vuol dire che nell'ambito della stessa Università esistono
criteri tanto difformi da legittimare all'esterno incomprensioni e da alimentare
possibili disuguaglianze nel mondo del lavoro.
Occorrono uomini nuovi. Occorre ricordare quello che è successo con i
provvedimenti urgenti del 1980, quando migliaia di persone, spesso senza
avere titoli e maturità sufficienti, furono inserite nei ruoli dei
docenti universitari. Occorre evitare che si rinnovi la distruzione di ogni
speranza nei più giovani, alla quale allora assistemmo. Occorre
sostenere il Ministro nella ferma difesa della necessità di una
procedura concorsuale ed apprezzarne il contributo volto ad evitare la
provincializzazione degli Atenei.
La proposta che rende necessario trascorrere un congruo periodo di tempo
in una Università diversa da quella di origine è norma di
civiltà, una volta che se ne disponga l'applicazione per i concorsi
futuri, non per quelli in atto.
Oggi ci troviamo di fronte a due circostanze di estremo rilievo: la
diminuzione degli studenti e l'esodo di molti docenti dovuto ai pensionamenti.
Questo significa che oggi esistono le condizioni per pensare in modo
innovativo.
Maggiore impegno per la ricerca, maggiore disponibilità dei docenti,
più forte raccordo fra gli insegnamenti, attuazione effettiva del
tutorato, in modo da realizzare una complessiva situazione di uguaglianza fra
studenti.
Per troppo tempo è stata dominante la tendenza all'autoconservazione
e al corporativismo delle categorie, accompagnata spesso dalla chiusura in
sé stesse delle singole strutture didattiche e scientifiche. I gravi
e crescenti problemi che abbiamo dovuto affrontare ci hanno dimostrato che
questa è una strada inidonea a garantire lo sviluppo armonico
degli Atenei e che comunque non può essere ulteriormente perseguita per
l'esistenza di forti limiti di risorse.
Non posso infine non affrontare l'argomento della ricerca. Voglio farlo
ricordando l'istituzione della Fondazione Alma Mater, della Bononia University
Press, dell'Institute for Advanced Studies, Osservatorio della Ricerca.
Ma voglio farlo anche ricordando questa volta i valori della ricerca pura,
senza rinnegare per questo l'esigenza di un apporto alla ricerca applicata.
In effetti, più e più volte ho evidenziato la necessità
del trasferimento dell'innovazione, in collaborazione con le forze economiche
e sociali e con le imprese in particolare.
In molti casi questa collaborazione si è rivelata - essa sì -
un'impresa, superiore alle nostre forze. Presso l'Associazione degli
Industriali abbiamo cercato efficienza e innovazione, ma negli ultimissimi
anni abbiamo trovato molte ingessature e una burocratizzazione superiore alla
nostra.
Non resta che sperare per il futuro e puntare sull'energia e la
disponibilità di singoli imprenditori. Tra essi voglio ricordare qui
la Famiglia Seragnoli, il cavaliere del lavoro Ivo Galletti, il cavaliere del
lavoro Ermanno Fabbri.
Emerge da quanto ho detto l'esigenza di un più stretto rapporto con i ]
grandi Enti di ricerca, in particolare il CNR e l'INFN, e nello stesso tempo
di una rafforzata attenzione a realtà rilevanti, come il Conservatorio
e l'Accademia, alle quali ci lega la comune volontà di ridare
dignità di luogo di cultura a Via Zamboni, a Piazza Verdi in
particolare.
Ma qui mi fermo per rispettare il mio impegno iniziale.
Noi sappiamo bene che l'Università non è, né deve essere
un chiostro d'avorio, ma non vorremmo che la sua apparente trasformazione in
"magazzino promiscuo e frenetico" fosse definitiva (Crick).
Sappiamo che al tentativo globale di ricerca di una visione coerente del
mondo si è sostituito un mosaico di approcci professionali frammentati
(Prigogine), ma vorremmo ribadire che in questo momento l'Università
ha un ruolo fondamentale nel promuovere una visione meno riduttiva della
cultura, nella quale sia le scienze in senso stretto, sia le discipline
umanistiche trovino una comunicazione ed un ruolo naturale e nella
quale si esprima anche una vocazione sociale dell'Università,
così da giustificare per tutte la scritta incisa sul frontone
della Università di Heidelberg: "Am Lebendigen Geist"; "Allo spirito
vivente".
In questo stesso spirito dichiaro aperto l'anno accademico 1996/97,
909o dalla Fondazione.